Oggi è più o meno giorno qualunque, più o meno di un Aprile qualunque, più o meno di un anno qualunque. O quasi.
Il tempo inizia ad essere pigro e pesante, indeciso tra primavera ed estate, c’è sempre più luce e sempre meno voglia di lavorare, ci accorgiamo che le vacanze stanno per prendere forma e siamo consapevoli che la prova costume, probabilmente, non verrà superata neppure stavolta.
Nel frattempo, ma senza far rumore, i buoni propositi del 31 Dicembre (il primo è sempre mettersi a dieta) stanno lentamente iniziando a dissolversi. E come vittime sacrificali al dolce dormire che fa da sfondo alle nostre giornate i 3 libri al mese, o la serata settimanale a teatro, o lo yoga all’alba e tanto altro ancora, ci appaiono adesso talmente sbiaditi che è come se non fossero mai esistiti.
Per quelli di cui ancora ci ricordiamo, probabilmente non ci saremo neppure dati pena di cominciare quindi tanto vale lasciarsi tutto alle spalle e darsi appuntamento al prossimo pranzo di Natale. Ma fermiamoci qua. A questo punto l’animo di chi legge sarà probabilmente già stato inchiodato al muro dei propri sensi di colpa, e non sarebbe elegante continuare a mettere il dito nella piaga.
A ben vedere, stavolta però c’è qualcos’altro con cui dobbiamo nostro malgrado fare i conti. E che specie per un corridore, pare quasi grottesco. Forse l’aspetto più curioso (per non dire paradossale) che ci stiamo apprestando a vivere durante questo ennesimo, ancorché indesiderato capitolo, che un mondo sempre più globalmente fuori controllo sta scrivendo sulla nostra pelle.
Siamo fermi. Contro la nostra volontà. Per la prima volta, da quasi un mese ci hanno detto che non possiamo muoverci liberamente, non nel modo che conosciamo meglio perlomeno.
E nonostante gli sforzi per tenerci impegnati ed in esercizio (a tal proposito lasciatemi ringraziare Massimo, Giovanni ed Alessandra ed i loro super allenamenti! Con tutti gli squat che ho fatto le chiappe mi sono arrivate all’altezza dei reni…), cercando di puntellare le nostre giornate con quel residuo di normalità, o di nuova normalità per evitare che le ore ci franino addosso come una parete in rovina, in generale stiamo più o meno tutti facendo i conti con un isolamento, fisico e mentale, e con una vita filtrata ed immaginata ormai soltanto attraverso la finestra da cui guardiamo fuori.
Con una velocità impensabile nemmeno per chi con essa convive per definizione (non guardate me, io ed il concetto di pié veloce siamo diametralmente opposti), le nostre diversità sono via via evaporate. Quello che caratterizza ognuno di noi, in un modo o nell’altro è venuto meno. Siamo diventati tutti uguali, tutti a casa (la quintessenza della globalizzazione!).
Ed in tutto questo rallentare, cosa ci sta portando la brusca frenata che abbiamo inevitabilmente dovuto imprimere alla nostra vita? Faccia a faccia con noi stessi, da dove vogliamo ripartire? E come? Non penso che questa sia un’occasione persa, né siano giorni buttati via. Non per noi, almeno.
Perché un corridore ha, o trova sempre una direzione da seguire, sia essa un campo di allenamento accecato dal sole, o un marciapiede impregnato d’acqua. Oppure quella che porta a scoprire una parte diversa di sé, non necessariamente migliore. Ma che ci mancava. Un diverso angolo visuale o una prospettiva alternativa da cui guardare le cose, della cui assenza non ci eravamo neppure mai accorti.
In un modo o nell’altro, saremo probabilmente più completi una volta che arriverà domani.
Impareremo forse ad aspettare che a volte le cose accadono da sole, perché una pausa è importante tanto quanto il movimento, e forse a volte molto di più; o a capire che il vuoto che a volte straripa dentro di noi non dobbiamo per forza colmarlo con o grazie a qualcuno; o ad accarezzare più da vicino i nostri pensieri, adesso che riusciamo a distinguerne meglio i contorni, anche se in questo momento ci possono apparire stretti come le pareti della casa da cui non possiamo uscire; ad alzare la testa e guardare le stelle, che in questi giorni sembrano brillare più del solito sopra di noi; a capire che anche il silenzio riesce a dirci qualcosa, se abbiamo voglia e pazienza di ascoltarlo con attenzione.
E saremo forse più grati per quello che abbiamo, quando spunterà di nuovo il sole e vedremo che tutti quelli a cui vogliamo bene saranno ancora là, ad aspettare soltanto un nostro abbraccio, perché la riconoscenza verso un destino benevolo non conosce limiti e misure. Saremo forse più capaci a riconoscere l’importanza di quello che abbiamo costruito, perché è parte di ciò che siamo, e ad essere combattivi se dovremo rimboccarci le maniche per rimettere a posto le cose.
Ne sono convinto, questa cattività involontaria saprà ispirarci per cogliere le nuove opportunità che da questo vivere ingabbiati prenderanno vita, per pianificare e programmare i giorni che verranno, per studiare mosse che ci si augura siano vincenti.
Il coronavirus ci ha restituito il tempo che distrattamente abbiamo spesso gettato per strada senza badarci troppo. Vorrà pur dire qualcosa. Dopotutto, se come diceva il grande Faber, dal letame nascono i fior, vorrete mai che non possa uscire fuori qualcosa di buono da due mesi passati a casa?
E poi, pensateci un attimo. A conti fatti, per chi è abituato ad indossare un paio di scarpe da corsa, questa momentanea ed involontaria paralisi dovrebbe sembrarci vagamente familiare, o quantomeno non poi così insolita.
Hic et nunc. Volendo scovare angolazioni in comune con quello che normalmente ci succede ogni domenica mattina, non è come se fossimo idealmente posizionati tutti sulla riga di partenza poco prima che lo sparo risuoni nell’aria (o la pernacchia del Coach, se per ipotesi fosse il 1 Gennaio)? E l’istante che fa da cornice al nostro presente, quel battito d’ali in cui siamo fermi in attesa di liberare i nostri piedi, è un momento che tutti noi conosciamo molto bene.
E’ un attimo che racchiude tutta un’attesa, il sipario che si chiude sul prima e si apre sul dopo. In cui c’è silenzio, almeno dentro, in cui nessuno ci disturba, in cui meccanicamente si ripassa per l’ennesima volta il tracciato e l’andatura da tenere fino al punto in cui potremo affondare i nostri passi in maniera sempre più decisa, la resa dei conti attesa da tempo, per cui abbiamo sofferto e per cui ci siamo sacrificati.
E così come la quarantena, quel frammento che dura un respiro ma sembra che non finisca mai accomuna adesso tutti noi, veloci e non. Siamo tutti là, pronti a partire.
E non è poi vero che sebbene la vita di un corridore, lento o veloce che sia, è fatta di movimento, chi vive la strada sa anche aspettare? I secondi che scendono e i chilometri che salgono, il dissolversi di quel momento di crisi lungo il percorso che ci attende e che sembra inchiodarci all’asfalto, le gambe che pesano e la paura di non farcela. Panta rei, tutto (s)corre. E chi meglio di noi può saperlo?
Domandare quale sarà la prima cosa da fare una volta liberi appare forse fin troppo banale o scontato, penso di conoscere già la risposta senza nemmeno aprire bocca. Qualcuno si sarà preparato per tempo, altri lo scopriranno più in là, tanto il cammino è lungo e l’occhio al cronometro non così importante.
C’è chi magari tornerà o ritornerà sui suoi passi, chi cambierà i propri piani (in questo 2020 personalmente mi ero ripromesso di non correre maratone, ma devo dire che qualcuno deve avermi preso troppo sul serio… ed ora di mantenere questo proposito inizio a non avere più molta voglia!), chi troverà il coraggio per compiere scelte attese da tempo, e chi quello per dare finalmente vita ai propri sogni. Ognuno avrà una storia da scrivere o da riscrivere, più o meno in ordine sparso.
La speranza, è che in un mondo in cui almeno per un bel po’ tenderemo tutti a rimanere più distanti rispetto a prima, si riesca ad andare un minimo in controtendenza riuscendo a correre, almeno noi, più veloci del virus, così come delle paure e delle angosce che questo porta con sé.
Verrà il tempo, in ogni caso. Probabilmente ci vorrà parecchio per tornare alla normalità, ammesso che sia davvero possibile. Ma in un modo o nell’altro arriveremo fino in fondo anche stavolta. Perché sappiamo come fare, perché abbiamo pazienza, perché siamo allenati.
Perché siamo gente che vive la strada.
Anche se oggi, in questo giorno più o meno qualunque, di un Aprile più o meno qualunque, di un anno più o meno qualunque, ci sembra davvero non finire mai.
RANIERO SPAZIANI