Ritorno a gareggiare la domenica scegliendo la corsa di Ostia all’interno della pineta di Castel Fusano.
Parcheggio lungo il Canale dei Pescatori, imboccato ad un semaforo sul lungomare e costeggiato per due km fino al cuore della pineta. È un canale di quelli veri, con le ringhiere protettive e le barche che dondolano laggiù in basso.
Le otto e un quarto di mattina. 20 gradi scarsi. ‘Una felpa l’avrei indossata volentieri’ mentre mi incammino per raggiungere i gazebo del ritrovo. Il cielo è coperto, i pini intorno sono alti e le auto dei runner che stanno arrivando con i fari accesi fanno gruppo, siamo qui, appena staccati dal resto del mondo. Tutti in cammino, borsa in spalla, passo svelto, c’è tempo sì ma le cose da fare sono tante: il pettorale, i saluti, la vestizione, il riscaldamento e poi… ci piace essere sempre trafelati, sì ciao, casomai a fine corsa, adesso vado di fretta, non posso proprio scusa, eh sapessi io, me lo dici dopo; ma il selfie col canale in prospettiva sullo sfondo, bè quello è d’obbligo, fa così eroe.
Trafelati, sì, ma è un piacere ritrovarci, anche per non salutarci affatto, anche soltanto per ignorarci: è il nostro marchio d’attenzione.
In marcia, come in un rave clandestino, è bello precedere la giornata, sentirsi in azione quando nulla è iniziato.
Scatta il privilegio di vivere in due vite contemporaneamente. La pineta ancora buia, l’umidità il ponte e sul canale, il sentiero sterrato di insediamento rafforzano questa sensazione di appartenere all’avventura in cui un podista coraggioso vaga per una pineta misteriosa. È un piacere fisico provare la certezza che gli altri stanno ancora dormendo quando qui ci si sente così slegati, quando l’annuncio di un temporale è proprio lo spunto in più per vivere la figura del pioniere runner.
C’è l’ultimo invito a raggrupparci sotto il gonfiabile per la partenza.
Sì, è praticamente certo che il temporale ci coglierà durante la corsa.
Va bene.
Siamo in circa 400. Si parte.
Siamo in tanti e soli, va bene.