E pensare che quando 4 anni fa ho iniziato a correre e poi a gareggiare, a chi mi chiedeva della Maratona di New York, ho sempre detto che mai l’avrei corsa. Ma i runners è noto, sono imprevedibili e si sa anche che il loro appetito cresce ogni volta che tagliano un nuovo traguardo. E così, all’inizio di quest’anno, proprio mentre ancora mi stavo riprendendo dall’ennesimo infortunio, ho deciso di aggregarmi a un gruppo di amici, rinunciando a correre la Maratona di Roma a cui mi ero precedentemente iscritta. Ho pensato che come runner tardiva, avrei potuto correre a New York per poi abbandonare definitivamente questa distanza, che impegna sempre diverse settimane per la preparazione.
Durante ogni allenamento la promessa era sempre quella di non farne più.
Al termine di ogni allenamento il desiderio era, al contrario, quello di pensare a quella successiva.
Ho sofferto da morire questa preparazione più delle precedenti, un po’ per il caldo che ha caratterizzato i mesi estivi e un po’ perché la testa era posizionata sempre altrove, con un figlio in preda alle ansie per la preparazione degli esami di maturità prima e i test di ingresso all’università poi, che, inevitabilmente, quale madre emotiva, si riversavano anche su di me.
Ho affrontato questa maratona con la consapevolezza di non avere i km che avevo messo su durante la preparazione delle tre corse in precedenza, ma con la certezza che comunque sarei arrivata a méta.
Sarà perché i racconti di chi l’aveva già vissuta mi hanno sempre trasferito una certa carica, sarà perché volevo toccare con mano certe emozioni, sarà che New York riserva sempre un fascino particolare e che si rinnova ogni volta che la si visita, soprattutto se ciò accade correndo sulle proprie gambe i 5 distretti che conducono nella meravigliosa cornice di Central Park.
Parto verso la Grande Mela, per la prima volta da quando corro non ci sarà nessuno che conosco lungo il percorso a battermi il cinque o a incitarmi e sento con il passare dei giorni che questa cosa mi mancherà. Mi mancherà da morire!
La notte che precede il grande giorno mi ritrovo alle 3 ora locale a chattare con un gruppo di amiche che sono rimaste a Roma. Sono emozionata, impaurita come una bambina che deve affrontare un esame senza essere accompagnata. Loro mi tengono un po’ compagnia. Una volta arrivata a Staten Island, perdo subito di vista Lucia che avrebbe dovuto essere nel mio stesso villaggio, il verde. Mi avvio da sola, stendo la coperta che mi ero portata e mi siedo a terra. C’è il sole, New York ci ha aperto una bellissima finestra dopo giorni di freddo e pioggia. Mi sento sola, ho bisogno di qualcuno con cui sfogare la mia emozione. Ma il segnale è debole e i messaggi stentano a partire. Finché qualche minuto prima della partenza ne ricevo uno, è di un amico da Roma, che mi chiede come sto. Lo invito a chiamarmi. Riesce a farlo tramite whatsup, rispondo e scoppio in un pianto a dirotto che non mi consente di esprimere ciò che provo. Lo ringrazio di essermi vicino, di aver accolto le mie paure. Mi rassicura, mi augura in bocca al lupo, e con la voce rotta dall’emozione riesco a salutarlo. È tempo di partire per il mio quarto viaggio, questa volta oltreoceano. So che sono tutti in collegamento con New York, sono consapevole che malgrado non potrò battere il cinque a nessun volto noto, non sarò da sola. Spengo il cellulare e mi metto in griglia. Mi posiziono insieme a una quantità infinita di persone nella parte inferiore del ponte di Verrazzano, mentre scorrono le note dell’inno americano. Il cuore è gonfio di emozione, pochi minuti e ci viene dato il via. In contrasto con lo stato d’animo che ha preceduto la partenza, mi avvio tranquilla. C’è un silenzio assordante, non si sente volare una mosca, solo il rumore di milioni di scarpe che battono sull’asfalto. Affronto la prima metà del mio viaggio, con serenità e con un ritmo probabilmente superiore a quello che avrei dovuto tenere, ma il tifo, fin da subito, invoglia a spingere, l’atmosfera è festosa, le persone sono assiepate su entrambi i lati della strada, insieme a bambini di ogni età che si sporgono per tendere la loro mano che accarezzo volentieri pensando ai miei figli che sono rimasti a Roma.
Non mi rendo nemmeno conto dei km che scorrono, ma inevitabilmente la stanchezza arriva e, dopo la seconda metà, inizio a rallentare, alternando la camminata sulla salita di ogni ponte, alla corsa quando si presenta la discesa. Ogni volta che in lontananza scorgo l’arco di rilevazione dei passaggi però accelero, ho la sensazione di tranquillizzare in anticipo chi mi sta seguendo da casa e che sicuramente si sarà reso conto che sto viaggiando al risparmio. Ma quando in lontananza si presenta lo spettacolo di Central Park, ritrovo le ultime energie che avevo riservato. Penso a Chiara che mi aveva chiesto di dedicarle le ultime tre miglia e non posso farlo camminando… lei va forte, non voglio deluderla, questo pensiero mi dà la carica giusta. Riesco a superare un bel po’ di persone, le ali di folla ai lati del parco rendono tutto più facile… intravedo l’arco di arrivo, presto volentieri il sorriso ai flash dei fotografi. Voglio il ricordo di una maratona che porterò sempre nel cuore e che ho corso con gioia e serenità. Taglio il traguardo, sono emozionata e felice, lascio che un volontario mi metta la medaglia al collo e da lui pretendo un selfie che testimoni a caldo la gioia che sto vivendo.
Inizio a sentire freddo, recupero il poncho caldo destinato a chi non ha lasciato il bagaglio alla partenza e piano piano mi avvio in albergo portando con me tante emozioni.
Dall’applicazione mi accerto dell’arrivo di tutti i miei compagni. Sono felice, ognuno di noi ha portato a termine la propria maratona in un contesto spettacolare e il primo pensiero una volta approdata in hotel è quello di individuare la prossima nuova méta.
MATILDE MASINI